Martedì 10 dicembre 2019 - ore 17.00
Sala conferenze della Biblioteca Statale “S. Crise”, L.go Papa Giovanni XXIII n.6
Incontro con l'ambasciatore Antonio Armellini
A cura del prof. Stefano Amadeo
La brexit continua a dominare lo scenario politico in una Gran Bretagna, che affronta il 12 dicembre le elezioni – le seconde in due anni – con un paese profondamente diviso, incerto di sé e del suo futuro, dovendo scegliere fra due leaders – Johnson e Corbyn – entrambi non amati (a dir poco) dalla maggioranza dei rispettivi elettori, mentre ha assistito al probabile suicidio politico dei liberal-democratici: con i suoi grossolani errori la loro leader Jo Swinson ha buttato al vento la possibilità di diventare l’ago della bilancia della permanenza o meno nell’Unione Europea, o quantomeno di una uscita comunque soft.
Difficile dire come andrà: i sondaggi danno i conservatori in vantaggio, ma non è chiaro di quanto: se Johnson dovesse restare sotto i 325 seggi necessari per la maggioranza assoluta, si aprirebbe una nuova stagione di incertezza, dove tutto sarebbe possibile: governo di minoranza, nuovo referendum, cambio di cavallo con governo di minoranza Corbyn, financo nuove elezioni dopo meno di un anno.
Una maggioranza di almeno trenta seggi consentirebbe a Johnson di completare il processo di uscita entro il 31 gennaio 2020, come promesso. Ma non di rispettare l’impegno a chiudere la partita entro il 31 dicembre dello stesso anno. Una volta ratificato l’accordo di uscita da parte di Londra e dei Ventisette, si aprirebbe il negoziato per la conclusione di un accordo di libero scambio fra il Regno Unito e l’UE. Mai nella storia di quest’ultima accordi del genere sono stati conclusi in meno di cinque anni e più; la promessa del manifesto elettorale Tory è stata smentita da molti nello stesso partito, da Kenneth Clark all’ex Speaker (e ormai star nazionale) John Bercow, ma viene ripetuta come un mantra da Johnson nei confronti di elettori che in parte vogliono crederci, ma più che altro sono stanchi di una saga infinita che distrae il paese alle urgenze di un’economia stagnante e da emergenze vere sul piano sociale, della sanità pubblica, educativo e delle infrastrutture. La Gran Bretagna del boom della finanza si scopre sempre più ineguale e comincia a preoccuparsene.
Resta lo stupore di come una democrazia ritenuta stabile ed efficiente, un paese dalle strutture di governo prese spesso a modello e dalle capacità negoziali riconosciute, abbia potuto entrare in una avventura che rischia di metterne in discussione gli aspetti fondamentali, senza avere una idea di chiara di dove puntare e in assenza di qualsiasi strategia negoziale. Indicendo un referendum che pensava di vincere, per un mero calcolo di tattica politica interna, Cameron ha commesso un errore che rischia di provocare la crisi più grave degli ultimi tre secoli, mettendo in pericolo l’unità delle quattro nazioni che sin qui compongono il Regno Unito. Non solo per l’abborracciato sistema pensato per l’Irlanda del Nord, ma per la spinta che una fuoriuscita – specie se hard - avrebbe sull’indipendentismo scozzese con un probabile effetto di trascinamento in Galles. Che una simile prospettiva non sembri sconvolgere più che tanto i leavers alla Jacob Rees-Mogg è una rappresentazione plastica della loro autolesionistica confusione.
Quasi tuti escludono che Johnson pensi seriamente a una hard brexit ma la polarizzazione, in forme sin qui sconosciute, è tale che un errore di percorso per quanto improbabile non sarebbe impossibile, come l’esperienza di altri paesi (incluso il nostro) ampiamente insegna.
Guardando nella sfera di cristallo, si può azzardare una fuoriuscita ragionata, con una transizione di diversi anni per arrivare alla conclusione dell’accordo di libero scambio e un Primo Ministro Johnson che muterebbe posizione nel corso dell’estate, addebitando la colpa alle trame di un’opposizione distruttiva e all’intransigenza ottusa di una Bruxelles al traino di Merkel e Macron (ammesso che entrambi fossero ancora in grado di dettare le regole). Ma potrebbe andare anche diversamente, i sondaggi si sono spesso rivelati inaffidabili e fare previsioni può essere tanto inutile quanto pericoloso.
Comunque finisca, l’immagine internazionale della Gran Bretagna esce devastata dalla brexit, non solo per l’incapacità di governo e negoziale sottolineate da una classe politica la cui mediocrità mette in discussione la validità dei meccanismi di selezione interna cui molti avevano guardato con ammirazione, ma anche per l’effetto sulla “Madre dei Parlamenti”, come chiamano i Comuni gli stessi inglesi. Il sistema maggioritario uninominale ha assicurato una rappresentanza efficace per una democrazia stabile, capace di riconoscersi in una scelta binaria: il confronto fra globalismo internazionalista e localismo nazionalista introdotto dalla brexit non ha trovato rappresentanza nell’allineamento politico tradizionale ed ha scardinato trasversalmente entrambi i partiti aprendo fronti nuovi ed imprevisti. E’ immaginabile in termini di credibilità e rappresentatività democratica una situazione in cui un partito come il brexit party, forte del consenso di circa il venti per cento dell’elettorato, non ha nemmeno un seggio ai Comuni?
I Ventisette hanno, almeno sinora, smentito le preoccupazioni di quanti paventavano dalla brexit un effetto disgregante difficilmente controllabile. E’ successo il contrario e l’aspettativa di Londra di dividere il campo avverso, partendo dal gruppo di Visegrad, è andata delusa. L’unità mantenuta dall’UE durante tutto il negoziato – grazie anche all’abilità politica di Michel Barnier – è stata una sorpresa gradita. Aldilà del convincimento ribadito che l’Europa rappresenti alla fine dei conti un esercizio a somma positiva irrinunciabile, la brexit ha chiarito a chiunque fosse tentato di seguirne le tracce quanto uscire dall’UE sia non solo svantaggioso, ma impossibile o quasi. Come Londra ha sperimentato.
Antonio Armellini - Diplomatico, e’ stato, fra gli altri, a Bruxelles, Varsavia, Addis Abeba, Vienna, Helsinki, Londra, Algeri, Baghdad, New Delhi, Parigi. E’ stato Portavoce del Commissario europeo Altiero Spinelli e collaboratore di Aldo Moro al Ministero degli Esteri e alla Presidenza del Consiglio. Ambasciatore itinerante alla CSCE, 1990-1992, in Algeria, 1998-2000, in India e Nepal 2004-08, Rappresentante Permanente presso l’OCSE a Parigi, 2008-2010. Coordinatore internazionale antiterrorismo a Roma nel 2001-2002, Capo della Missione italiana in Iraq nel 2003.
Si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Roma (110/110) con una tesi di economia internazionale, 1967, ed è stato Fulbright fellow all’Università di Stanford, 1962-1963
E’ stato Consigliere per gli affari internazionali della città di Venezia dal 2011 al 2014; Commissario liquidatore dell’IsIAO – Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, dal 2011 al 2015
Ha insegnato Tecnica del negoziato internazionale all’Università LUISS, Roma (2003-2004) e Relazioni internazionali comparate, all’Università Ca’ Foscari, Venezia (2008-2009). E’ Membro dell’IISS (International Institute of Strategic Studies) di Londra, dello IAI (Istituto Affari Internazionali) di Roma, del CESPI di Roma e del Comitato scientifico dell’OMFIF (Official Monetary and Financial Institutions) di Londra.
E’ stato Consigliere di amministrazione di SAVE, Venezia, 1986-1989. Consigliere della Fondazione Venezia 2000, 2000-2006. Consigliere di amministrazione di Banca BIIS, 2010-2012; Consigliere delegato di Thetis Spa, 2010-2013.
Editorialista per il Corriere della Sera, collabora con lo Huffington Post e varie riviste specializzate. Ha scritto “L’elefante ha messo le ali – l’India all’alba del XXI secolo”, Egea, 2008 e 2013 (edizione inglese: “If the Elephant Flies”, Har Anand books, New Delhi, 2012); “Né centauro né chimera – modesta proposta per un’Europa plurale (con Gerardo Mombelli), Marsilio, 2016.